Il ROI dei social media su Panorama Economy

Di seguito l’articolo che ho scritto per Panorama Economy, in edicola dall’8 marzo. Si tratta di un riadattamento di un paragrafo del mio libro “Social Media ROI“.


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Nell’ultimo anno il successo planetario di Facebook (845 milioni di utenti attivi al mese) ha indotto molte aziende ad aprire una pagina ufficiale nella speranza di raggiungere milioni di persone ed abbassare, contemporaneamente, i costi di comunicazione. La verità è che nel più trafficato centro commerciale del mondo avere una pagina con molti fan, magari acquisiti grazie ad investimenti pubblicitari, non garantisce, sic et simpliciter, alcun ritorno sull’investimento.
La domanda su quale sia il R.O.I. (Return on Investment) dei social media sta diventando ricorrente tra i professionisti delle del marketing e delle relazioni pubbliche. In realtà posta in questi termini la questione diventa impossibile da redimere, non per incapacità, ma perché è la domanda ad essere sbagliata. Proviamo ad analizzare il tema.

Con l’acronimo R.O.I. viene indicata una semplice formula per il calcolo della profittabilità del capitale investito. E’ generalmente usata come indice di bilancio delle aziende, ma viene anche impiegata per misurare singoli investimenti. Si tratta di una metrica prettamente finanziaria facile da calcolare se si sanno identificare gli elementi che compongono il numeratore (profitto ossia guadagno lordo meno costo dell’investimento) e il denominatore (costo dell’investimento).

I social media sono tutti quei servizi web-based (i blog, i social network, YouTube, ecc…) che rendono possibile la socializzazione sia del trasporto che della trasformazione del messaggio, ossia che permetto a chiunque di essere soggetto attivo della comunicazione. Quindi, se ci pensate bene, è come chiedere quale sia il R.O.I. dei mass media ossia di una serie eterogenea di media.
Ma anche restringendo l’indagine ad un solo medium sociale, ci si troverebbe di fronte a qualche problema. In effetti anche la domanda “Qual è il R.O.I. di Facebook?” non è corretta. Sarebbe come chiedere “qual è il ritorno dell’investimento del telefono”.
La richiesta andrebbe riformulata in modo da comprendere la specifica attività posta in essere, dalla quale ci si attende un risultato finanziario, e il tempo di riferimento nel quale si espleterà. Ad esempio: “qual è il R.O.I. della gestione della presenza su Facebook per il primo semestre del prossimo anno?” oppure “quale R.O.I. ci si può attendere dallo spostamento del 10% delle risorse dal call center tradizionale al customer care via Facebook, nel prossimo trimestre?”.

Ricapitolando il R.O.I. è:
● una metrica finanziaria
● riferita ad una specifica attività e ad un arco temporale
● non condizionata dal medium specifico
● legata ad obiettivi di business

3.342 social media marketer di tutto il mondo interpellati da MarketingSherpa dichiarano di aver calcolato il R.O.I. delle loro attività. Un quarto dice di aver raggiunto un indice del 100%, quindi il punto di pareggio tra investimenti ed entrate, mentre il 12% ritiene di essere arrivato al 200%.
Ma quali sono i valori che includono nel calcolo del ritorno dell’investimento?
Si scopre che, al numeratore, il 62% considera il valore effettivo delle vendite generate dai programmi di social marketing, il 49% il valore stimato dell’incremento di traffico al sito web generato dalle attività social, il 47% il valore stimato delle nuove opportunità generate. Poi ci sono quelli che azzardano una stima del valore dei fan e dei follower (34%) o del sentiment e dell’awareness (24%). Solo il 13% considera la riduzione di costo del servizio clienti e dell’acquisizione di clienti determinato dall’introduzione dei social media. Inoltre si scopre che le organizzazioni che considerano quest’ultimo elemento nel calcolo sono anche quelle più strutturate e nella fase avanzata di utilizzo dei nuovi media.
Alla domanda su quali siano i costi che vengono posti al denominatore, il 66% risponde quelli dello staff dedicato alle attività sui social media, il 48% quelli della pubblicità sui social media, il 31% l’implementazione o le licenze delle applicazioni sui social media, il 29% i compensi per agenzie e consulenti, il 28% indica i costi per lo staff non prettamente marketing, il 25% il costo di contenuti creati da soggetti esterni all’organizzazione.
La survey mette in luce che sono soprattutto le aziende con un approccio strategico al social media marketing a considerare i costi di staff nel calcolo del R.O.I. Probabilmente perché, a differenza di quelle che si trovano in uno stadio di uso tattico dei nuovi mezzi, comprendono quanto sia importante il lavoro delle singole persone per il successo delle attività sui social media.
Un’analisi di IBM e comScore sulle vendite del cosiddetto “Cyber Monday” del 2011 (il giorno in cui tradizionalmente inizia lo shopping online natalizio dopo il giorno del ringraziamento) ha rivelato che 7 milioni di dollari di venduto, lo 0.56% di tutte le vendite online del giorno, sono direttamente attribuibili ai social media.

La Piramide del ROI dei social media
La piramide del ROI (mio adattamento da Altimeter Group)

E’ bene sottolineare che il R.O.I. è soltanto uno dei tanti indici di risultato (o Key Performance Indicator) che si possono misurare e che non tutte le attività attraverso i social media devono necessariamente essere misurate in termini di ritorno finanziario sull’investimento. Quelle di relazione con gli opinion leader della rete, la gestione di una crisi attraverso i social media, la gestione della presenza online per produrre awareness, non sempre possono essere direttamente legare ad un risultato finanziario.
Dunque la questione del ritorno finanziario dell’investimento nei social media è più rilevante per quelle aziende che vedono le attività social come mere campagne media, come attività di marketing a sé stanti e di breve respiro, scollegate dai complessivi obiettivi di business. Ciò non vuol dire disconoscere il ruolo della misurazione, tutt’altro. Significa acquisire la capacità di creare un programma strategico e un framework di misurazione subordinati al raggiungimento di obiettivi di alto valore aziendale. In definitiva dare al ROI un significato più ampio e di lungo periodo.
Ad esempio se l’obiettivo più elevato è migliorare le performance finanziarie aziendali e il servizio clienti, si può studiare un’attività attraverso i media sociali, che riduca le richieste al call center tradizionale. Un team di supporto su Twitter può essere creato e misurato su tre livelli. A quello più basso attraverso la percentuale di problematiche risolte attraverso la piattaforma di microblogging. A livello di business attraverso la riduzione del traffico al call center tradizionale. Al livello più alto misurando la diminuzione di costi dell’operazione di spostamento di alcune risorse dal call center tradizionale a Twitter e la soddisfazione dei clienti (vedi immagine).
Insomma è tempo di superare la fase dell’uso tattico dei social media, smettere di accumulare fan e follower senza costruire relazioni. Per sopravvivere in un mercato globale e sempre più competitivo sta ai manager più illuminati integrare gli strumenti di rete nelle pratiche quotidiane e progettare attività sui nuovi media che abbiano un obiettivo di business e che siano misurabili anche in termini di metriche di business, non necessariamente finanziarie.

6 replies on “Il ROI dei social media su Panorama Economy”
  1. says: Emanuele De Candia

    E’ ancora troppo recente la competenza che corrobora alle attività di marketing quelle di misurazione dei risultati, come se la prima dovesse sostanziarsi nell’intuito creativo o alla meglio in riduttive forme di calcolo, trasposte di sana pianta dai criteri finanziari. E’ curioso che mentre i framework della contabilità finanziaria (es. Enviromental, Social & Governance -ESG) stanno sempre più ampliandosi, ricomprendendo nei lori obiettivi di misurazione, l’apporto delle attività intangibili in ingresso (risorse), e in uscita attraverso la stima dei vari outcome del valore aziendale (brand equity, reputation, loyalty, fairness, satisfaction, premium price, ecc), tutti di natura non financial, nell’ambito delle attività di marketing (con eccessi nel social), c’è una profonda ignoranza della gestione strategica di questi intangible assets, a ben vedere pertinenti proprio all’area stessa. C’è anche da dire che in Italia pochi praticano il marketing, surrogandolo quando va bene con politiche operative (le famose 4 P, senza previa analisi strategica e impostazione del piano), che si riducono in piano di comunicazione e pubblicità. I testi accademici o professionali sono profezie e non smettono di ripetere che le 4 P sono superate, di fatto però rarissime aziende hanno il marketing manager che utilizza semplici simulazioni o sistemi decisionali per strategie di prezzo, come pochi conoscono strumenti pianificazione  e valutazione delle campagne. C’è lo staff del dipartimento finanza per decidere della variabile prezzo e le agenzie per la comunicazione. 

  2. says: Fabio Cavallotti

    Ottima analisi, lungimirante e ancora poco compresa, almeno nelle aziende che frequento. 

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