Nel febbraio 2006 io, Pier Paolo Boccadamo, Carlo Rossanigo, Paolo Guadagni e Vincenzo De Tommaso, riuscimmo ad organizzare il primo incontro italiano tra una multinazionale, Microsoft, e dodici blogger (qui il resoconto di Massimo). Volevamo provare a creare dei momenti di dialogo informale tra punti di vista differenti, stimolare una “naked conversation“, ispirati dal Cluetrain Manifesto.
Quel format, importato dagli USA, divenne una consuetudine delle Digital PR e, forse inevitabilmente, perse quella naïveté degli esordi.
A volte i blogger non coinvolti in quegli incontri ristretti accusavano i partecipanti di vendersi per qualche tartina, ma, parallelamente, si aprì anche un interessante dibattito sulla trasparenza dei comportamenti. Generalmente chi accettava un dono o partecipava ad un evento offerto da un’azienda lo dichiarava nel post che poi scriveva.
Da qualche anno a questa parte le cose sono molto cambiate. Le aziende, assecondate anche dalle agenzie di comunicazione, sono diventate molto più pragmatiche: non ci pensano proprio a conversare, l’unico obiettivo è ottenere copertura. Girano addirittura veri e propri listini per le prestazioni dei cosiddetti influencer.
Un anno fa una multinazionale della tecnologia mi ha offerto €600 per andare ad un evento, twittare e scrivere un post. Io ho declinato la proposta, ma ho osservato gli altri blogger coinvolti scrivere della conferenza senza menzionare il rapporto di scambio intercorso.
Anche gli “influenti” sono cambiati. La massificazione dei social network ha contribuito a diluire l’importanza delle opinioni scritte sui blog, creando, nel contempo, nuovi palcoscenici per nuovi influencer, meno attenti alla trasparenza.
Ormai su YouTube, Instagram, Twitter, Tumblr, non si trova più traccia di disclaimer. I nuovi influencer promuovono prodotti in cambio di denaro, senza preoccuparsi di chiarire al proprio pubblico i rapporti che li legano alle aziende. E probabilmente neanche queste nuove audience si fanno domande in merito.
In USA ci sono leggi severe e anche in Italia ci sarebbero, a partire dal D.lgs. 2 agosto 2007, n. 146, ma nessuno se ne cura.
A rischio di sembrare nostalgico o moralista, continuo a pensare che sia corretto essere trasparenti quando si condividono esperienze in pubblico, ma dovrò rassegnarmi a queste nuove consuetudini, un po’ tossiche per l’ecosistema dell’informazione, e al fallimento di una parte delle tesi del Cluetrain Manifesto.