Il 21 aprile scorso sono stato invitato dalla Presidente della Camera a Montecitorio per offrire il mio punto di vista sul tema della disinformazione in rete, insieme a diversi esperti del mondo della tecnologia, dei media, della scuola e delle imprese. L’iniziativa si inseriva in una serie di approfondimenti che la Boldrini sta promuovendo per capire come porre un argine alle “fake news” (o meglio “false news”).
Condivido qui la mia posizione, che deriva anche dell’esperienza di monitoraggio delle conversazioni in rete.
Definizione e dimensioni del fenomeno
Ogni giorno in Blogmeter analizziamo diversi milioni di messaggi lasciati pubblicamente in rete. Quanti di questi sono fake news?
Difficile dirlo perché la stessa definizione di fake news è problematica. Spesso è difficile tracciare il confine tra messaggio di propaganda, informazione non fattuale, opinione, clickbait.
Per esempio analizzando le conversazioni sul mondo dell’energia nell’ultimo mese, si nota che tra le prime 100 notizie che ottengono la risonanza più ampia, 99 provengono da media outlet. Quindi diamo per assodato che siano verificate. Solo 1 su 100 è di questo tenore “Ecco come l’azienda X sta inquinando il territorio Y”.
Si tratta di un’opinione o di una informazione? E in questo caso è vera o falsa? Difficile se non impossibile dirlo per una macchina, ma anche per un uomo il fact checking presenta qualche difficoltà a causa di affermazioni non circostanziate. Ne consegue che sarebbe pericoloso prevedere meccanismi di censura.
Per la stessa ragione è difficile dire se ci sia stato un incremento di fake news in questi anni. Se c’è stato non è stato molto evidente. Sicuramente i meccanismi di produzione e condivisione propri dei social media hanno moltiplicato le opinioni e la condivisione facile.
Quello che si può dire è che ci sono ambiti in cui le “fake news” hanno maggior diffusione, in cui hanno presa facile forse perché gli utenti sono più propensi a credere e condividere. Qualche esempio:
Le “fake news” da clickbait (volte a portare visitatori ad un sito che lucra grazie a display adv) si riscontrano soprattutto negli ambiti dell’attualità e della politica, ed hanno come oggetto personaggi noti.
Le “fake news” ascrivibili al campo della disinformazione volontaria o involontaria attecchiscono negli ambiti della salute (forum e social network dedicati alle malattie, alla maternità), dell’ambiente, dei prodotti alimentari (es. olio di palma) e per la cura del corpo (parabeni nello shampoo).
In definitiva il tema della disinformazione (in rete e non) è fondamentale per la costruzione di una società plurale, democratica e consapevole, ma va tenuto presente che non ha assunto proporzioni abnormi tali da influire sulla rappresentazione e nella formazione dell’opinione pubblica online.
Cosa si può fare?
La soluzione ad un problema così complesso non può arrivare né da meccanismi tecnologici, né da interventi legislativi ad hoc.
Quello che fa una società di intelligence come Blogmeter nella sua attività quotidiana è di fornire alle aziende una tecnologia che permetta di raccogliere e individuare le opinioni espresse dalle persone in rete su un certo tema. In questo modo le aziende possono verificare le informazioni non corrette che le riguardano ed eventualmente intervenire (attraverso un commento, una campagna informativa o un miglioramento del prodotto).
Interventi su larga scala sono molto più complessi. Sistemi di intelligenza artificiale, opportunamente addestrati, possono essere utili per segnalare messaggi dubbi, ma difficilmente daranno un risultato certo. Si stanno facendo passi da gigante in tal senso, anche nel campo dell’image recognition, dato che la condivisione è sempre più visiva, ma non aspettiamoci la capacità di discernere il vero dal falso in tempo reale.
Qualche tipo di intervento è possibile come dimostrano le iniziative di Facebook e Google volte ad istituire il fact checking per segnalare la “dubbia veridicità” di una notizia. E’ auspicabile che queste vengano potenziate anche con l’aiuto di fact checker messi a disposizione dalle diverse testate.
Un’altra ipotesi potrebbe essere quella di intervenire sul design delle notizie in modo da rendere più evidente la fonte, oppure far apparire accanto ad esse un bollino con fatti e dati aggiuntivi verificati (es. su notizia contenente la parola vaccini inserire un bollino con dati sulla loro efficacia) o ancora corredarla con articoli simili provenienti da fonti certificate.
Sicuramente non esistendo una tecnologia in grado di rilevare con certezza le fake news, non avrebbero senso legislazioni speciali ad hoc per prevenire la diffusione in rete di informazioni false. Bastano le leggi attuali per punire chi arreca un danno ad altri.
Ciò che resta è uno sforzo comune di piattaforme, aziende, istituzioni, media e singoli cittadini verso un’educazione diffusa all’approfondimento.
L’educazione ai media (media literacy), anche social, dovrebbe diventare parte integrante dei programmi scolastici e di iniziative di formazione extra scolastica. L’obiettivo di questi progetti dovrebbe essere quello di sviluppare una forma mentis tesa alla verifica dei fatti, ma anche a far capire che ciascuno di noi è un media e che dunque abbiamo delle responsabilità nella cura di questo complesso ecosistema mediale del quale siamo parte.