Vincos – il blog di Vincenzo Cosenza

Ipotesi sul futuro di Internet: web3 o metaverso?

Il 2021 è stato un anno di discussioni attorno al futuro di internet. Non in Italia, purtroppo, ma nei luoghi in cui si fa innovazione. Il web 1.0 era una rete di sola lettura, mentre il web 2.0 ha abilitato anche i non esperti alla creazione di contenuti. Cosa accadrà ora?
Per capire a che punto siamo si può utilizzare il modello della “curva ad S” che mette in relazione due variabili: il numero degli utilizzatori di una innovazione e il tempo di vita della stessa sul mercato. Tipicamente quando una tecnologia viene immessa sul mercato fa fatica ad attecchire e sopravvive grazie agli investimenti di chi scommette sulla sua riuscita. Poi, grazie alle attività di marketing, si diffonde ad un numero sempre più ampio di persone. Infine, quando il mercato tende a saturarsi e le nuove adozioni cominciano a stagnare, si apre lo spazio per ulteriori innovazioni.

Rispetto al futuro del web, attualmente, siamo in una fase di confusione nella quale emergono due filoni di pensiero distinti, che propongono visioni e soluzioni embrionali. Da un lato c’è chi parla di Web3 e dall’altro chi evoca il metaverso.

Web3

Col termine Web3 si intende una rete decentralizzata nella quale la struttura client/server (in cui i dati sono gestiti e conservati da enti centrali fidati) verrebbe sostituita dalla tecnologia blockchain (un registro aperto e distribuito su una rete di computer peer to peer) e da un insieme di nuovi protocolli. Mentre il web 2.0 ha innovato il front-end, il web3 punterebbe a cambiare il back-end delle nostre esperienze in rete.

Le moderne blockchain, come Ethereum, sono programmabili come un PC o uno smartphone – sostengono Chris Dixon e Packy McCormick – ma ciò che le rende uniche è che i programmatori possono scrivere applicazioni che contengono “contratti” automaticamente eseguibili al verificarsi di determinate condizioni future (smart contract). Dunque non sarebbero soggette a modifiche improvvise dipendenti dagli umori di chi le ha sviluppate. Anzi, spesso queste applicazioni prevedono anche una distribuzione dei diritti di proprietà e voto tra gli utenti, attraverso token.

Le prime dApp (decentralized applications) a generare un’adozione di tutto rispetto sono state quelle finanziarie (DeFi) come Compound, Maker e Uniswap. Qui le funzioni sono effettuate da protocolli automatizzati controllati da comunità diffuse, anziché da entità centrali. Oggi queste applicazioni di nuova generazione vengono sperimentate anche per realizzare giochi, social media e marketplace, basati su blockchain.
Queste dApp, inoltre, prevedono la distribuzione e l’utilizzo di token, certificati che incorporano diritti specifici e codificati (votare, comprare, vendere, ricevere denaro, ecc.). I token più noti sono quelli non fungibili, gli NFT, che sono usati soprattutto per le opere d’arte e gli oggetti digitali da collezione.

Il cantori del Web3 sono sviluppatori e venture capitalist (a16z in primis) che credono, forse fideisticamente, che questo nuovo assetto della rete toglierà potere alle aziende “Big Tech” e darà più opportunità a piccoli imprenditori e creator. Anche gli utenti, sostengono, avranno i loro vantaggi perché potranno possedere i propri dati, decidere a chi concederli in uso e partecipare attivamente alle decisioni che riguardano l’evoluzione dei servizi utilizzati.

Se ciò fosse possibile, quante persone deciderebbero di partecipare attivamente? Questi nuovi servizi risolvono davvero dei problemi reali degli utenti attuali della rete o solo di una nicchia?
Insomma siamo ancora in una fase embrionale fatta di grandi investimenti e tentativi che potrebbe sfociare anche in una bolla come quella delle dot-com. Ciò non vuol dire che poi tutto andrà perduto. Credo sia molto più probabile una convivenza tra servizi 2.0 e servizi 3.0 che una transizione completa al Web3.

Metaverso

A partire dalla benedizione di Mark Zuckerberg che ha investito for fior di milioni sul suo sviluppo, il metaverso è diventato un argomento di cui si sono appropriati anche i non addetti ai lavori. L’hype ha raggiunto livelli inauditi tanto che, ormai, se ne parla per descrivere qualunque novità digitale.
Realisticamente le ipotesi sul metaverso sono tre: il metaverso come nuova internet, il metaverso come realtà aumentata, il metaverso come realtà virtuale.

Metaverso come nuova internet

Il metaverso come evoluzione di internet è l’idea più ambiziosa. Il suo primo e maggiore sostenitore è Matthew Ball, analista dei media e investitore, che ha definito il metaverso come l’evoluzione dell’attuale rete quindi un insieme di protocolli, tecnologie, linguaggi, dispositivi di accesso, contenuti ed esperienze immersivi, con caratteristiche peculiari.
Questa rete dovrebbe essere persistente, interoperabile, permettere esperienze sincrone, non avere limite di participanti, avere un’economia propria.

In questa accezione il metaverso non potrebbe essere l’opera di un’unica mente, ma richiederebbe il contributo di tantissime organizzazioni diverse, ognuna specializzata della costruzione di un pezzo dell’infrastruttura.
Ma gli ostacoli tecnologici attuali sono enormi, riguardano l’hardware, la capacità di banda, la potenza computazionale, gli standard per garantire l’interoperabilità tra esperienze diverse. Di conseguenza, questa idea è la meno probabile o, quanto meno, non realizzabile prima di dieci anni.

Metaverso come realtà virtuale

Il metaverso inteso come miglioramento delle esperienze di realtà virtuale è l’idea che si può leggere tra le righe delle dichiarazioni di Mark Zuckerberg. Anche lui lo vede come la prossima tappa dello sviluppo di internet, ma poi dipinge un universo fatto a immagine e somiglianza dei suoi prodotti. Quindi un insieme di mondi nei quali immergersi principalmente, ma non esclusivamente, con l’utilizzo di dispositivi specifici (come i visori e i controller della sua azienda Oculus) per fare esperienze di lavoro (magari usando la sua applicazione Horizon Workrooms) e ludiche (con Horizon Venues).

Anche qui il lavoro è ancora all’inizio perché l’attuale realtà virtuale, seppur convincente nelle sue applicazioni di gioco, è lontana dall’essere un accogliente mondo alternativo per la socializzazione delle masse. L’hardware richiesto è troppo pesante e invasivo, le applicazioni non ludiche sono poche, le meccaniche della “socialità virtuale” sono tutte da esplorare.
Nonostante ciò si stima che, nel 2021, siano stati venduti 8,1 milioni di dispositivi Oculus, più delle console XBox. Sul fronte VR, oltre a Meta, stanno lavorando con convinzione soprattutto i costruttori di hardware come HTC, Valve, Sony, Microsoft, Pimax (acquisita da ByteDance) e Varjo.

Metaverso come realtà aumentata

Il metaverso come miglioramento delle esperienze di realtà aumentata è l’ipotesi portata avanti dalle aziende che hanno investito da anni su questo fronte tecnologico specifico, in particolare Niantic Labs e Snap.

Niantic Labs, nata come startup interna a Google nel 2010 e poi diventata indipendente cinque anni dopo, è conosciuta per il primo gioco AR, Ingress, e per il successo di Pokémon Go, che ha generato oltre 6 miliardi di ricavi.
Il suo CEO, John Hanke, ha detto chiaramente che la versione di futuro di Zuckerberg è un incubo distopico e che lui vuole costruire una realtà migliore non alternativa. Non un posto nel quale rifugiarsi per sfuggire alla vita reale. “Crediamo di poter usare la tecnologia per aumentare questa realtà, incoraggiando le persone ad alzarsi, uscire e connettersi agli altri e al mondo circostante”.
Niantic sta lavorando ai suoi occhiali AR e ha presentato un kit di sviluppo per la sua piattaforma Lightship per permettere la creazione di esperienze simili a Pokémon Go.

Evan Spiegel, creatore di Snapchat, ha iniziato a credere alle potenzialità della realtà aumentata quando ha visto il successo delle maschere virtuali (Lens) all’interno della sua app. Poi ha lavorato su un hardware specifico: i primi occhiali (Spectacles) permettevano solo di catturare immagini, i prossimi avranno funzioni AR (in questo momento sono solo nelle mani degli sviluppatori che stanno testando nuove esperienze).

Anche in questo caso ci sono ancora dei problemi tecnologici tutti da risolvere legati al peso, all’autonomia, alla potenza di calcolo dell’hardware. A questi si aggiungono anche quelli relativi alla capacità di mappare in tempo reale tutti gli elementi reali che entrano nel campo visivo dell’osservatore. Ciò vuol dire possedere una copia digitale del mondo sulla quale sovrapporre gli elementi digitali che si desidera.
Potrebbero volerci tra i due e i cinque anni, ma ci stanno provando aziende temibili come Apple, Meta e Microsoft (che ha un accordo con Samsung per portare una versione dei suoi HoloLens sul mercato di massa).

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