Vedo sempre più spesso persone che per lodare un’idea creativa sbalorditiva esclamano “che grande marketing! Geni del marketing!”. Non succede solo con le grandi campagne, ma anche con le piccole creatività ad uso e consumo (rapidissimo) degli utenti della rete. Il fatto è che nella maggior parte dei casi gli sbalorditi sono gli addetti ai lavori, quelli che dovrebbero aver assimilato, ormai, la fondamentale distinzione tra pubblicità e marketing.
C’è stato un tempo nel quale si poteva sostenere che il marketing fosse la pubblicità. Intorno agli anni ’50/’60 negli Stati Uniti, in pieno boom economico, la gente aveva la disponibilità economica per comprare e le aziende producevano beni di consumo a ritmi sostenuti. L’offerta superava la domanda e dunque l’imperativo aziendale era rendere visibili i propri prodotti, più di quelli della concorrenza. Per fortuna i consumatori si fidavano di radio, tv, giornali, che, tra l’altro, erano a caccia di “finanziatori” per sostenere le loro elefantiache strutture. Era quella fase del marketing definita “orientamento alle vendite”, l’era d’oro della pubblicità, quella dei Mad Men. A questi pubblicitari che sembravano saperla lunga, gli imprenditori affidavano ciecamente i loro quattrini destinati al marketing.
Nel 2020 assimilare la pubblicità al marketing non ha più senso per almeno due motivi.
Il primo è che il marketing sta diventando, per accumulazione, sempre più esteso per obiettivi e funzioni.
Governa la presenza dell’azienda nel mondo fatto di atomi, ma anche in quello digitale, in costante espansione, e nelle intersezioni tra i due.
In più ai marketer si chiede un contributo concreto alle vendite, con azioni misurabili di lead generation e conversione, non soltanto comunicazione per scopi di mera awareness.
In questo contesto la pubblicità è solo una leva del marketing, in molti casi neanche la più importante. Anzi spesso il “copy” geniale viene lodato dagli addetti ai lavori, ma passa inosservato davanti agli occhi del pubblico al quale era rivolto.
Il secondo motivo è che il marketing non ha più a che fare solo con la costruzione di un idea di prodotto e di brand, di una promessa, ma anche e soprattutto con le azioni tese a realizzarla. La pubblicità è uno degli strumenti adatti a costruire la promessa, a raggiungere un pubblico ampio, ma non può essere di aiuto nella fase di realizzazione. Qui entrano in gioco altre leve come l’affidabilità e la disponibilità del prodotto, un prezzo adeguato, un servizio di supporto efficace.
In definitiva assimilare la pubblicità al marketing vuol dire non conoscere l’evoluzione del marketing oppure essere pigre vittime di un pericoloso meccanismo cognitivo di semplificazione. Un meccanismo che, se scatta inconsapevolmente nel marketer professionista, potrebbe fargli perdere di vista l’obiettivo principale: mantenere la promessa fatta alle persone.