Qualche giorno fa Malcom Gladwell, dalle colonne del New Yorker, ha sostenuto che Facebook, Twitter et similia non contribuiscono a generare alcuna vera rivoluzione sociale. Per far ciò ci vuole un’organizzazione gerarchica che guidi l’azione e un movimento basato su legami forti tra le persone, che le spinga a compiere gesti che richiedono sacrificio. Al contrario i social media, tendono a privilegiare i legami deboli e ad incoraggiare gesti semplici, ma poco concreti (il like, l’adesione ad un gruppo, il retweet).
Ieri The Economist rilanciava, in homepage, il dibattito ospitando una tesi vicina alle posizioni di Gladwell e una contro.
La prima, utilizzando la mia mappa mondiale dei social network, sostiene che questi servizi non siano sufficienti a dare più possibilità di espressione alle persone e a minare la capacità di controllo dei governi autoritari. Infatti dalla mappa risulta chiaro come in paesi come Iran, Cina, Vietnam, il governo favorisca social network di stato ed eventuali escamotage per sfuggire al controllo sono ad appannaggio solo di una minoranza.
La seconda tesi sottolinea la capacità di questi mezzi di contribuire a trasferire parte del potere, di espressione e di azione, dal centro alle periferie. In un mondo in cui l’informazione non può essere controllata, gli abusi di potere tenderebbero a diventare più difficili.
Secondo me le nuove piattaforme di collaborazione e condivisione hanno enormi potenzialità, ma restano pur sempre dei mezzi abilitanti. Per incidere sulla realtà politica e sociale occorrerà sempre la capacita’ di costruire un organizzazione, non necessariamente gerarchica, che poggi su una cultura condivisa e faccia leva su motivazioni comuni.