Lo studio di Facebook sul contagio emotivo ha scatenato molte reazioni, spesso pretestuose, altre volte utili. Fabio Chiusi mi ha chiesto un opinione per La Repubblica che, chiaramente, non ha potuto trascrivere integralmente e che condivido qui.
Al momento solo pochissimi studiano le emozioni espresse in rete (alcune analisi fatte in Blogmeter), mentre il marketing tradizionale studia da sempre le reazioni delle persone a certi stimoli, dal packaging agli spot.
Ci si limita a contare i click, le visite, le azioni svolte, ma le emozioni sono un campo ancora nascente di studio. E in ogni caso è ancora uno studio a posteriori, che, a limite potrà modificare le future attività di marketing.
La ricerca di Facebook ha suscitato clamore perché mette in luce le possibilità manipolatorie degli algoritmi (o meglio delle persone che li scrivono).
È bene essere consapevoli che gli algoritmi non possono essere oggettivi, alla base ci sono sempre delle scelte effettuate dall’uomo. Ma è anche vero che tali scelte, seppur non chiare e mutevoli, rispondo a semplici obiettivi di business. Non manipolare i sentimenti delle persone, ma rendere la loro esperienza gradevole al punto da invogliarli ad usare il servizio più frequentemente. Se Facebook privilegia la visualizzazione di foto anziché di status update testuali è perché ha visto che esse stimolano maggiormente l’interazione e il ritorno delle persone.
Dunque eviterei allarmismi, ma al tempo stesso sarebbe ora di chiedere maggior trasparenza possibile sui criteri, quantomeno generali, alla base degli algoritmi che regolano le nostre esperienze digitali.
Davvero interessante e impressionante. Uno spunto di riflessione, che sottolinea il rapporto sempre più controverso tra vita reale e vita virtuale, in alcuni casi forse surreale.