L’impatto delle tecnologie sulla psiche e sulle relazioni. Conversazione con Giuseppe Riva

Viviamo in un’epoca di trasformazione digitale rapidissima, dove le tecnologie non sono più semplici strumenti, ma attori che plasmano profondamente la nostra vita, le nostre relazioni e persino la nostra identità. Per esplorare questo impatto, ho fatto una chiacchierata con Giuseppe Riva, docente di psicologia della comunicazione alla Cattolica e fondatore dello Humane Technology Lab, che ha dato alle stampe “Io, noi, loro” (Il Mulino).

Riva parte dal presupposto che la nostra esperienza relazionale si costruisce fondamentalmente attraverso l’interazione con due “mondi”: il noi – coloro che ci sono vicini e che ci conoscono – e il loro – coloro che sono diversi da noi, che sono lontani. È in questo costante confronto tra il noi e il loro che il nostro io prende forma, definendo chi siamo attraverso l’identificazione con i simili e la distinzione dai diversi.

Io, Noi, Loro

La psicologia sociale conosce da tempo l’esistenza del senso del noi, del gruppo. Tuttavia, grazie alle più recenti ricerche neuroscientifiche, si è iniziato a comprendere i meccanismi biologici alla base di questa esperienza. Tre sono i principali blocchi neurobiologici coinvolti:

  • I neuroni GPS: ci dicono che noi siamo i luoghi che frequentiamo. Essi ci permettono di connettere le esperienze fatte in luoghi fisici delimitati (scuola, ufficio, stadio) al nostro senso di identità e a quello degli altri;
  • I neuroni specchio: che si attivano sia quando compiamo un’azione sia quando vediamo qualcun altro compierla. Permettono la comprensione delle emozioni altrui attraverso l’osservazione della corporeità, come le espressioni facciali;
  • La sincronizzazione delle onde cerebrali: quando un gruppo di persone si trova in un luogo i loro cervelli iniziano a funzionare insieme. La sincronizzazione cerebrale nei gruppi genera fenomeni di creatività, avvicinamento e comprensione dell’altro, fondamentali per l’evoluzione umana e i cambiamenti sociali. Tecniche come l’Hyper scanning, che misura l’attività elettrica di più cervelli contemporaneamente, hanno mostrato che la sincronizzazione neurale in una classe, ad esempio, correla con una maggiore efficacia didattica e connessione tra persone. Questo evidenzia come la scuola e i luoghi di socializzazione non servano solo all’apprendimento di nozioni, ma anche a connetterci con gli altri e sviluppare competenze relazionali.

L’impatto della rete sulle relazioni

Negli ultimi vent’anni, l’avvento delle tecnologie digitali e dei social media ha profondamente mediato queste connessioni. Se nei gruppi fisici le differenze iniziali tendono a ridursi nel tempo grazie a questi meccanismi neurobiologici, sui social media accade spesso il contrario. I social media tendono a creare “comunità di simili”, sia a causa degli algoritmi che fanno emergere i contenuti che ci piacciono, sia per le nostre stesse preferenze nel connetterci con chi condivide le nostre passioni.

Il passaggio all’online, come dimostrato dalla pandemia, ha mostrato che molti di questi meccanismi neurobiologici, come l’attivazione dei neuroni GPS o la sincronizzazione, non funzionano negli ambienti digitali 2D. Ciò ha portato a un effetto paradossale: pur avendo un numero maggiore di relazioni, il loro impatto biologico è molto basso. Questo riduce la nostra capacità di crescita personale, di sperimentare cose diverse da noi e di uscire dalla nostra zona di comfort. Sul web, tendiamo a rafforzare le nostre convinzioni e rimanere nella nostra comfort zone, anche a causa delle strategie dei fornitori di servizi digitali.

Senza la capacità di creare un forte senso del noi (che l’evoluzione ha costruito attraverso meccanismi neurobiologici legati a luoghi e corpi fisici), si verifica uno spostamento: se non c’è il noi, prevalgono l’io e il loro. Sui social media, l’interazione è spesso spinta dall’interesse personale: si cerca di proiettare un’immagine ideale di sé per ottenere like e follower, gonfiando l’io. Allo stesso tempo, l’essere costantemente con persone simili rende più evidente e problematica la presenza di chi è diverso; la diversità non è vista come un’opportunità, ma come un problema. Questo genera la forte polarizzazione tipica del mondo digitale, dove chi ha idee diverse viene spesso allontanato o attaccato.

Queste dinamiche scattano quasi in automatico. Mentre gli adulti con esperienze pregresse nel mondo fisico possono resistere, i più giovani, nati nell’era digitale, rischiano di sostituire la socialità fisica con quella digitale anziché usarla come complemento. Le tecnologie di rete sono potenti strumenti di connessione a distanza, utili quando l’incontro fisico non è possibile, ma vanno sempre bilanciate con la consapevolezza dei rischi e con l’incontro vis-a-vis.

L’impatto dell’IA sulla psiche

Altro tema affrontato nella chiacchierata è stato quello delle intelligenze artificiali generative. Strumenti come i chatbot di IA possono aiutarci a studiare meglio, agendo come tutor per, e ad alleviare la solitudine, il principale effetto della perdita del noi. Studi con dispositivi come Amazon Alexa hanno mostrato come anche interazioni basiche con un’IA possano aiutare gli anziani a sentirsi meno soli, specialmente se integrate con strumenti che facilitano la connessione umana, come la videoconferenza.

Tuttavia, i chatbot possono anche creare una forte illusione di relazionalità. Sono programmati per essere cooperativi e non mettere mai in discussione l’interlocutore, blandendoci. Questo può essere pericoloso, poiché crea l’illusione di un mondo relazionale “senza attriti, senza difficoltà, senza problemi” che non esiste nella realtà.

L’IA per estendere la nostra conoscenza

Un aspetto cruciale evidenziato da Riva è che l’IA sta diventando un “sistema zero”, un meccanismo di estensione cognitiva (si veda suo paper “The case for human-AI interaction as system 0 thinking“).
Prima che le informazioni arrivino ai nostri sistemi cognitivi (il “sistema 1” automatico e il “sistema 2” razionale, individuati da Daniel Kahneman), l’IA le analizza e le aggrega. Funziona come un filtro cognitivo che, se usato efficacemente, può migliorare il processo decisionale.
Il problema sorge quando l’umano non è sufficientemente competente per analizzare criticamente le informazioni fornite dall’IA. Studi dimostrano che la collaborazione IA-umano porta valore aggiunto solo se l’umano ha una competenza sull’argomento superiore o pari a quella dell’IA. Se l’umano ne sa di meno, l’uso dell’IA può portare a decisioni sbagliate e a una perdita di competenza. Dunque, l’IA è utile come strumento integrativo, non sostitutivo.

In sintesi, le tecnologie digitali hanno un impatto complesso e ambivalente sulla nostra psiche e sulle nostre relazioni. Hanno alterato i modi in cui costruiamo il senso del noi e l’io, amplificando la polarizzazione e talvolta riducendo la nostra capacità di affrontare la diversità e le difficoltà emotive. Al tempo stesso, l’IA offre immense opportunità, soprattutto in campi come l’educazione e il supporto psicologico, ma richiede una consapevolezza critica e non deve sostituire l’interazione umana.
La chiave sta nell’integrare, non sostituire, e nel coltivare una profonda consapevolezza degli strumenti che usiamo e delle loro conseguenze sulla nostra mente e sulla nostra società.

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