Augusto Valeriani insegna Mass media, conflitti e politica internazionale presso la Facoltà di Scienze politiche “Roberto Ruffilli” di Forlì (Università di Bologna). Ha scritto un ottimo saggio, snello, chiaro e ben documentato, sull’impatto che la rete e i social media stanno avendo sui professionisti della politica internazionale. Gli ho posto tre domande per darvi un’idea del racconto che ha inteso sviluppare.
Nel tuo libro metti in luce come la diplomazia sia fortemente influenzata dall’evoluzione dei media. Ci racconti i tratti salienti che ci hanno portato al “twitter factor”?
La dimensione pubblica della politica internazionale, ovvero quell’arena di conflitto e negoziazione al cui interno vengono definite le rappresentazioni di ciò che accade nello spazio internazionale, è, quasi completamente, uno spazio mediatizzato. E’ dunque inevitabile che tutti gli attori che sono interessati ad influenzare tali rappresentazioni -attori governativi in primis- debbano prestare attenzione alle evoluzioni all’interno degli ecosistemi mediali.
Ragionando in prospettiva storica sicuramente la maggiore sfida e opportunità in questo senso è rappresentata dalla sempre maggiore interconnessione dei sistemi di comunicazione a livello globale avviata qualche decennio fa dalla possibilità della diretta televisiva satellitare. La connessione dei palcoscenici e dunque la possibilitá di un “going public” che sia anche simultanenamente un “going global” ha trasformato significativamente la comunicazione politica internazionale.
L’ecologia del web 2.0 ha rappresentato un ulterioriore (lungo) passo avanti in questa direzione, perchè ha posto l’accento sulla relazione, lo sviluppo di comunità e l’engagement a livello transnazionale e potenzialmente globale. La sfida per gli attori governativi, come per tutti gli altri attori della sfera internazionale è dunque oggi su due piani: quello sincronico, collegato alla necessità di tenere il passo con un sistema dei media che pretende di essere continuamente “alimentato” e quello diacronico collegato alla necessità di sviluppare relazioni e collaborazioni con comunità eterogenee fatte di reti e nodi, diverse per dimensione e struttura e difficilmente riconducibili ad un modello unico.
Dopo Twitter, emblema del nuovo modo di fare diplomazia, intravedi qualche altro strumento in grado di portare ad un nuovo livello la politica internazionale?
Il “twitter factor” non riguarda soltanto Twitter. Riguarda il web attuale come ambiente comunicativo. Il ragionamento che porto avanti nel mio ultimo libro infatti non è focalizzato tanto sugli strumenti quanto piuttosto sulla “rivoluzione culturale” che investe la diplomazia (ma anche il giornalismo e le NGO) all’interno di questo ambiente. L’idea di spostare almeno una parte dell’attenzione dalla costruzione del messaggio alla costruzione di comunità, e dunque di concepire la definizione del messaggio secondo modalità reticolari e non piramidali, rappresenta un forte shock per la cultura diplomatica. Non dimentichiamoci che la cultura e la pratica di plomatica è fortemente avversa al rischio e al cambiamento.
Più che quali strumenti il tema è: una volta che gli attori governativi avranno imparato a costruire comunità transnazionali e a dialogare con esse, in che direzione si muoveranno? Ovvero, abbiamo le comunità ma adesso cosa ne facciamo? Vogliamo davvero coinvolgerle nei processi di policymaking – che non significa che è il crowd a definire la politica estera di uno Stato, per carità, ma significa ad esempio considerare queste comunità come interlocutore rispetto ad esempio alle global issues (ambiente, economia etc.) – o vogliamo semplicemente avere ambienti maggiormente interattivi dove fare nation-branding? Sinceramente credo che questo sia il tema e, sulla base delle strade che saranno intraprese, si determinerà il porossimo “livello” della comunicazione politica internazionale.
L’Italia è assente da questo scenario. Vedi possibili segnali di cambiamento nell’uso dei social media?
In termini di diplomazia digitale è fuor di discussione che il nostro paese ha davanti molta strada da fare. Che il ministro degli esteri abbia aperto un account twitter, e che lo usi, è il segnale di una curiosità e di un’attenzione rispetto a questo ambiente. E questo, come ho avuto già modo di dire, è incoraggiante. Ma come è ovvio non basta.
A quanto mi risulta c’è la volontà di investire maggiormente in questa direzione nel prossimo futuro. Ma bisogna evitare di muoversi solo perchè adesso è di moda. In questo senso è molto importante definire una strategia e avere una visione d’insieme. Si tratta di capire che cosa si vuole ottenere attraverso la diplomazia digitale, quali sono gli obiettivi (coerentemente con le caratteristiche dell’ecosistema comunicativo del web 2.0), definire una straegia coordinata e comunicarla in maniera chiara prima di tutto a livello interno, tra i funzionari. Poi a mio avviso è fondamentale coinvolgere attori provenienti da background diversi, tanto nel pensare quanto nell’agire la diplomazia digitale; negli USA hanno avuto il coraggio di farlo è questo a mio avviso è stata una scelta vincente.
La diplomazia diglitale comunque per funzionare deve essere una pratica corale, ma per evitare stecche da parte di qualcuno è necessario che ognuno abbia davanti uno spartito chiaro. Serve una visione e servono delle policies, altrimenti non si va da nessuna parte.
Disclaimer: il libro mi è stato gentilmente inviato da Laterza. Le case editrici lo fanno spesso, ma io do spazio solo alle cose che mi piacciono.