La fine di Instagram

È la fine di Instagram o almeno dell’app che abbiamo imparato ad usare in questi anni. L’applicazione creata nel 2010 da Kevin Systrom e Mike Krieger in questi dodici anni ha subìto diverse trasformazioni per adeguarsi all’evoluzione tecnologica e ai bisogni degli utenti, ma oggi rischia di prendere una strada tortuosa e forse senza uscita.

Una metamorfosi iniziata 10 anni fa

Instagram nacque con l’idea di consentire un racconto per immagini della propria vita, seguendo un formato rigido, quello quadrato, che rendeva la visualizzazione ottimale da smartphone. Un altro elemento distintivo rispetto ai servizi di photo sharing erano i filtri, che permettevano di virare lo scatto, dandogli un aspetto meno amatoriale. Scelte che hanno conquistato le masse e fatto storcere il naso ai fotografi professionisti o semi professionisti che, piano piano, si sono dovuti arrendere alla promessa di visibilità che servizi come Flickr o 500px non potevano garantire.

Nel 2012, quando aveva meno di 20 milioni di utenti, Mark Zuckerberg acquisì IG per circa un miliardo di dollari, intuendone il potenziale e sfruttando le capacità di sviluppo del suo team per un mondo in mobilità per il quale Facebook non era stato concepito. È l’inizio di una metamorfosi che porterà l’app a raggiungere 2 miliardi di utenti attivi mensili, ma anche a perdere lo spirito originario in nome di una subalternità alle esigenze di business del gruppo Meta.
Nel 2013 verranno introdotti i video e i messaggi privati, nel 2015 cadranno le limitazioni alle dimensioni delle foto e verrà aggiunta la sezione Esplora che farà emergere i contenuti più popolari scelti da un algoritmo.

Un punto di svolta critico è quello incontrato nel 2016 quando vengono introdotte le Storie, un formato di contenuti effimeri inventato da Snapchat, azienda piccola sfuggita alle lusinghe pecuniarie del diavolo tentatore Zuckerberg. Fu una scelta criticata, ma che consentì all’app di riconquistare il gradimento degli adolescenti che erano alla ricerca di un modo più leggero di raccontarsi, da affiancare a quello studiato e immortalato nel proprio profilo. Un successo certificato dalle parole del capo dell’epoca Kevin Systrom, che nel 2018 affermò: “il tempo speso a guardare le storie eguaglia quasi quello trascorso a scorrere il feed principale”.

Sempre nel 2016 fu fatta un’altra scelta difficile e molto criticata dagli utenti e dagli influencer: l’abbandono del feed cronologico a favore dell’adozione di quello algoritmico, sul modello di Facebook. In pratica, i contenuti della homepage, come spiegato qui, venivano scelti dai sistemi di machine learning in funzione delle abitudini del singolo utente, ma sempre all’interno degli account seguiti. Anche questa decisione si è rivelata giusta perché ha fatto crescere gli utenti e il tempo di utilizzo dell’app.

Instagram logo remixato con i colori di TikTok
Un remix del logo Instagram TikTokizzato by Vincos

La sfida TikTok

Proprio quando la nuova dirigenza raccoglie i frutti di queste scelte divisive (alcune sbagliate come la IGTV) e veleggia verso il traguardo di due miliardi di utenti, inizia a diffondersi un nuovo virus tra le abitudini dei teenager. Viene dalla Cina e si chiama TikTok. All’inizio viene sottovalutato, ma durante la pandemia cresce in popolarità in tutto il mondo, riuscendo a coinvolgere oltre 1 miliardo di utenti occidentali e 600 milioni di cinesi.

Un vero pericolo per Meta che, in questo caso, non potendo adottare l’arma dell’acquisizione (in un periodo di massima allerta dell’antitrust aggravata dalla proprietà cinese dell’azienda) prova con quella della replica del formato tipico del concorrente, quello dei video brevi basati su una colonna sonora portante. Così, nell’agosto 2020, arrivano i Reel e mese dopo mese invadono il flusso di foto al quale eravamo abituati.

Ma non basta perché l’elemento distintivo di TikTok non è racchiuso in una singola funzione, facilmente replicabile, ma in un insieme di scelte strutturali di progettazione, funzionali ad un unico obiettivo: intrattenere.
I video brevi montabili in-app grazie ad un potente software di editing come formato, il contenuto a tutto schermo come elemento prevalente dell’interfaccia utente minimale e un “algoritmo comunista” che seleziona i contenuti prevalentemente in base a logiche di interesse potenziale e non di connessione esistente tra account, dunque che pesca su tutti i contenuti prodotti e non solo su quelli degli account seguiti. Un “discovery engine”, non un “priority engine”.

petizione instagram
Il meme che ha portato alla petizione

Come si cambia per non morire

E così dopo aver copiato il primo punto, Instagram ha deciso di duplicare anche gli altri nella speranza di bloccare l’avanzata del nemico cinese. Quindi oggi, ad ogni apertura dell’app, dopo un paio di post creati da chi abbiamo deciso scientemente di seguire per curiosità o per le sue doti, veniamo inondati da video di sconosciuti che sembrano essere usciti da TikTok (anche perché spesso sono dei repost).
Subito sono arrivate le lamentele di utenti e influencer di peso, come Kyle e Kim Kardashian, tanto che Adam Mosseri, attuale capo di Instagram, ha risposto con un Reel e un’intervista nelle quali, pur facendo delle concessioni, ha fatto capire che l’azienda continuerà per la sua strada.

Continuerà a dare sempre più spazio ai video perché i dati parlano chiaro: la condivisione di foto avviene ormai nelle storie e nei messaggi diretti, non nel feed. Continuerà a testare l’interfaccia con i contenuti a tutto schermo, anche se si prenderà qualche settimana per metterla a punto. E, cosa più importante, non cambierà idea sul nuovo motore di raccomandazioni che privilegia la scoperta di nuovi contenuti. Al momento, ammette Mosseri, non è ancora perfetto, ma migliorerà (tra l’altro, se siete nostalgici del feed classico, basta cliccare l’opzione “Segui già” sul logo in alto a sinistra).

Un ragionamento logico e razionale, ma che non tiene conto delle aspettative (difficili da modificare). Gli utenti aprono Instagram per seguire persone e interessi, mentre aprono TikTok per essere intrattenuti. Ne consegue che un motore di raccomandazioni soddisfacente per i primi dovrebbe far emergere contenuti rispondenti ai propri interessi anche se pescati da un bacino più ampio (molto difficile da mettere a punto per miliardi di persone). Ai secondi, invece, basta un motore di raccomandazioni più generico purché porti alla luce video che facciano distrarre.

Instagram poteva decidere di non cambiare rischiando di perdere rilevanza, ma ha scelto di trasformarsi in una copia di TikTok, col rischio che gli utenti preferiscano l’originale.
Se la decisione è stata davvero presa sulla base di dati e non sull’onda della paura di perdere il treno del nuovo e di essere detronizzati, probabilmente darà i suoi frutti, ma ho l’impressione che non fermerà la crescita di TikTok (che, dal canto suo, inizierà a voler far emergere anche i contenuti di “friends & family” che Instagram sta depotenziando).

Quello che è certo è che è la fine di un’applicazione nata per soddisfare il bisogno di sbirciare le vite di influencer e amici, oltre che per raccontare la propria attraverso qualche filtro colorato. II segno dei tempi di quella che ho definito tiktokizzazione di internet e che risponde al bisogno di spegnere il cervello e annegare in un flusso senza fine di video esilaranti.

Tags from the story
,
2 replies on “La fine di Instagram”

Comments are closed.