L’illusione della competenza: perché stiamo sprecando l’intelligenza artificiale

Sono reduce da una settimana di interventi e workshop pratici sull’uso della GenAI che ho tenuto in aziende e agenzie di comunicazione. Sono state giornate di confronto con professionisti di varie funzioni aziendali che mi hanno restituito la percezione molto netta del vero stato di adozione di queste tecnologie, lasciandomi un senso di inquietudine inattesa. Perché in quasi tutti ho notato entusiasmo, ma anche qualcosa di più sottile e pericoloso: la falsa sicurezza di chi crede di padroneggiare uno strumento che, in realtà, sta solo sfiorando.

La trappola dell’interfaccia amichevole

Ormai quasi tutti in azienda hanno sperimentato ChatGPT, Gemini o Copilot. Questi chatbot sono diventati la porta d’ingresso all’intelligenza artificiale generativa. Ma quella casella di testo bianca, così gravida di promesse, può essere infida. Ha fatto credere a molti che la semplicità dell’interfaccia corrispondesse alla semplicità d’uso. Che bastasse digitare una richiesta come se stessimo parlando con un collega per ottenere risultati professionali.

Questa è quella che gli psicologi chiamano l’illusione della competenza, una variante dell’effetto Dunning-Kruger applicata alla tecnologia: gli utenti non sanno di non sapere. Hanno imparato a usare lo strumento al livello più elementare e si sono fermati lì, convinti di averne colto l’essenza.

Quello che non vediamo (e che fa la differenza)

Durante i workshop, ho chiesto ai partecipanti: “Quanti di voi hanno mai cambiato il modello linguistico prima di fare una richiesta complessa?” Una mano alzata. “Quanti hanno esplorato gli strumenti specifici disponibili, come la ricerca avanzata o l’analisi di dati?” Poche mani alzate.

La maggior parte degli utenti ignora che esistono impostazioni decisive per la qualità del risultato. Non sa che può scegliere tra modelli diversi a seconda della complessità del compito. Non conosce funzioni come la “deep research”, che potrebbero trasformare radicalmente il loro modo di lavorare. Si fermano alla superficie, limitandosi a quella prima esperienza che determina, per sempre, il loro rapporto con la tecnologia.

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La delega in bianco

Ma il comportamento più preoccupante che ho osservato è un altro: la scrittura di prompt che assomigliano a query per Google. Frasi scarne, telegrafiche, prive di contesto. “Scrivi un post LinkedIn sulla leadership.” “Fai una presentazione sul cambiamento climatico.” “Riassumi questo testo.”

Richieste che puntano direttamente all’obiettivo, senza costruire il percorso per arrivarci. Il risultato? Output generici, piatti, intercambiabili. E la reazione più comune è: “Visto, che risultato mediocre?”.

Quando scriviamo un prompt vago, stiamo compiendo un atto preciso, anche se inconsapevole: stiamo dando una delega in bianco all’intelligenza artificiale. Le stiamo dicendo: “Riempi tu i vuoti di quello che non ti ho spiegato. Indovina il mio settore, il mio pubblico, il mio tono, il mio obiettivo. E poi dammi una risposta.”
È come assumere un consulente, rinchiuderlo in una stanza senza briefing, e aspettarsi che produca una strategia su misura per la nostra azienda.

La verità è che un prompt efficace richiede pensiero. Richiede che ci fermiamo cinque minuti in più per strutturare la richiesta. Per fornire contesto e istruzioni chiare: chi siamo, per chi scriviamo, quale obiettivo vogliamo raggiungere, quale tono vogliamo usare, quali esempi vogliamo evitare.

L’aspettativa irrazionale (o la pigrizia troppo umana)

Forse c’è, sotto tutto questo, un’aspettativa irrazionale. La fantasia che la macchina possa leggerci nel pensiero, anticipare i nostri bisogni, interpretare le nostre intenzioni non dette. È la stessa illusione che ci fa credere che un assistente digitale capisca davvero cosa vogliamo quando gli diciamo “trova qualcosa di interessante da guardare stasera.”

O forse, ed è l’ipotesi che mi spaventa di più, è semplicemente pigrizia. La stessa pigrizia che ci spinge a copiare-incollare prompt senza personalizzarli. L’IA, in questo scenario, diventa solo l’ultimo strumento di una lunga catena di scorciatoie cognitive.

Il rischio vero: sprecare l’intelligenza artificiale

Ecco il punto che mi inquieta: stiamo sprecando l’intelligenza artificiale generativa. Non perché la tecnologia non sia potente, ma perché la stiamo usando male. La stiamo riducendo a un generatore automatico di mediocrità, quando potrebbe essere un moltiplicatore di creatività e pensiero critico.

Il problema non è tecnologico. È culturale e metodologico. Riguarda il modo in cui concepiamo il lavoro intellettuale nell’era della GenAI. Dobbiamo smettere di delegare il lavoro a queste “intelligenze aliene” come se fossero entità magiche. Dobbiamo invece imparare a usarle come strumenti per aumentare il nostro pensiero, non per sostituirlo.
Per farlo bisogna mettersi in discussione, aprire la mente e acquisire la capacità di scrivere istruzioni chiare per dirigere il compito del nostro copilota.

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