Social media, informazione e libertà di espressione

26 maggio 2020, Twitter contrassegna come “potenzialmente fuorvianti” due tweet nei quali Donald Trump sostiene che le votazioni per posta darebbero luogo a brogli. I tweet restano visibili, ma con l’aggiunta di un link “Get the facts” che invita a “verificare i fatti” consultando altre fonti informative. Qualche tempo prima il network aveva cancellato i tweet di Jair Bolsonaro e Nicolàs Maduro, presidenti del Brasile e del Venezuela, per aver diffuso informazioni false sul Covid-19.

trump tweet del 26 maggio segnalati da twitter

Il presidente, nel giro di un paio di giorni, emette un ordine esecutivo, alquanto raffazzonato, che limita la tutela legale alle piattaforme per i contenuti circolanti sulle stesse (garantita dalla sezione 230 del Communications Decency Act). Un mero atto di rabbia e propaganda teso a stimolare gli enti regolatori a modificare la legge.


29 maggio 2020. Gli USA sono in subbuglio per la morte di George Floyd, afroamericano ucciso da un poliziotto. Trump twitta in merito ai disordini di Minneapolis “when the looting starts, the shooting starts“. Questa volta Twitter lo contrassegna come contrario alle policy per “incitamento alla violenza”. Nei fatti il tweet rimane visibile se si va al link specifico, ma se visualizzato nella timeline risulta nascosto e al suo posto compare la motivazione. Inoltre ne viene limitata la circolazione (è possibile solo ritwittarlo con commento).

trump tweet del 29 maggio segnalato da twitter

Le posizioni di Twitter e Facebook

La vicenda ha scatenato sia la contrapposizione politica che quella tra piattaforme.
Jack Dorsey, deus ex machina di questo nuovo approccio interventista, ha chiarito che “l’intenzione è di connettere i puntini di dichiarazioni confliggenti e mostrare le informazioni dibattute, in modo che le persone possano giudicare autonomamente”. Il fine ultimo, esplicitato in una specifica policy, è di evitare interferenze nelle elezioni e in altri processi civici.

jack dorsey vs mark zuckerberg

Facebook, che non ha una “civic integrity policy” ma una policy sui contenuti violenti, ha deciso di non intervenire, lasciando visibili i post di Trump.
Da tempo Zuckerberg pensa che nelle discussioni di politici sia meglio non attivare il fact checking, al fine di garantire la massima libertà di espressione, a meno che queste discussioni non generino un “rischio imminente di danni o pericoli specifici”. Nel caso specifico, la frase di Trump di avvertimento al dispiegamento della Guardia Nazionale nel caso di saccheggiamenti è stata interpretata come un’informazione utile ai cittadini e non come un incitamento alla violenza.


Twitter e Facebook sono molto distanti anche in merito ai messaggi pubblicitari di carattere politico. Twitter ha fermato qualsiasi comunicazione di argomento politico a pagamento (stabilirne i confini non è banale e ha già causato malumori). Il social network più grande del mondo ha deciso che è possibile comprare inserzioni politiche liberamente, senza incorrere nel fact checking.

Cos’è la Section 230

La sezione 230 del Communications Decency Act del 1996 è alla base del consolidamento dei servizi internet. Le ventisei parole che hanno creato Internet, descritte dal libro di Jeff Kosseff, affermano che “nessun fornitore di servizi internet e nessun utilizzatore di tali servizi può essere ritenuto responsabile quale editore o quale autore di una qualsiasi informazione che sia stata fornita da terzi”. Nella pratica è una norma che fornisce uno scudo legale ai provider in nome del libero mercato, quello economico e quello delle idee.
Senza di essa i social media non sarebbero nati e forse neanche Wikipedia. I gestori dei servizi che ospitano contenuti, infatti, non sono obbligati a cancellare quelli ritenuti offensivi da qualcuno, fatta eccezione per le violazioni di copyright, che hanno un’altra disciplina.
Noi europei, utilizzando i social media statunitensi, subiamo gli effetti della sezione 230. Non ci resta che indignarci per l’irresponsabilità dei gestori o per la loro autoregolamentazione sbilenca e a tratti neopuritana.

Quale internet vogliamo?

La questione (ri)portata alla luce della vicenda Trump-Twitter è molto interessante perché incarna la complessità del mondo nuovo nel quale viviamo, in cui internet ha scardinato l’economia e l’ecosistema mediale.
Per capire da che parte stare e formarsi un’opinione bisognerebbe avere ben chiaro che internet vorremmo, o almeno, stabilire cosa sono i social media. Spazi pubblici o privati? Servizi pubblici o privati? Contenitori o editori?

Se se decide che sono un servizio pubblico dovrebbero essere regolati attentamente dallo Stato affinché vengano garantiti i diritti di tutti i cittadini. Ma quali diritti? Alla massima libertà di espressione o alla tutela contro l’hate speech? Ciò implicherebbe anche fidarsi di un legislatore che, in questi anni, non ha brillato per capacità di comprensione della complessità socio-tecnologica.
Se si propende per l’idea opposta vorrebbe dire affidarsi una semplice auto regolamentazione, all’interno del quadro normativo esistente, diversa per ogni social media e accettando gli strabismi del caso.
Se li si considerasse come meri contenitori bisognerebbe ammettere la legittima circolazione di qualunque contenuto, senza responsabilità per il gestore. Al contrario, visti come degli editori, gli si imporrebbe un carico di responsabilità insostenibile perché implicherebbe il controllo preventivo di tutti i post.

L’errore è proprio provare ad incasellare i social media nelle vecchie categorie. Si tratta di società private che offrono servizi di comunicazione al pubblico e di organizzazione dell’informazione che, per la scala raggiunta, hanno un innegabile impatto sulle opinioni e sui comportamenti.
Servizi di comunicazione perché offrono gratuitamente, a chi si iscrive, uno spazio per condividere i propri pensieri. Allo stesso tempo essi non vengono esposti su una bacheca sconfinata davanti ai nostri occhi, sarebbe impossibile. Ecco perché l’informazione viene organizzata secondo criteri diversi e poco chiari da algoritmi (succede anche su Twitter).
Sicuramente i social media non sono piattaforme neutrali perché nel nostro ecosistema mediale la neutralità non può esistere. Scegliere di non scegliere come fa Zuckerberg è una scelta. Scegliere di segnalare o nascondere selettivamente, come fa Twitter, è una scelta che orienta le opinioni ed espone a critiche (perché la mole di contenuti non permette un controllo sulla loro totalità).

La peculiarità dei social media richiede delle risposte che non abbiamo ancora messo a fuoco e che forse emergeranno nei prossimi anni, dopo centinaia di prove ed errori. Quello di cui sono certo oggi è che non le affiderei ad un legislatore o ad un giudice. Tra l’internet delle tante verità (e bugie) e l’internet dell’unica verità, continuo a preferire la prima.

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